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Uzbekistan

Samarcanda, Uzbekistan

Babi mi accoglie con un sorriso smagliante e mi racconta un po’ di sé. «Mi piace quando piove». Sotto il sole rovente che non ha pietà di niente e nessuno già in tarda primavera, capisco cosa intende. Svicoliamo tra le maioliche blu di Samarcanda, la città dov’è nata e che vive in lei con tutte le lingue che parla fin da bambina: persiano, tagico, uzbeco, russo. Città crocevia, vortice di popoli e culture che si intrecciano da secoli, civiltà dopo civiltà, impero dopo impero. Mi trascina per mano sotto l’immenso portale della moschea di Bibi-Khanym. «Vieni, qui si vedono ancora le maioliche originali imperlate di piccoli diamanti».

Doveva essere uno dei luoghi di culto più grandi di tutto il mondo islamico dell’epoca, voluto grandioso da Tamerlano, che ne aveva ordinato la costruzione dopo aver saccheggiato l’India. Neanche due secoli dopo, Bibi-Khanym crollò sotto il suo stesso peso, diventando una rovina simbolo del potere grandioso ed effimero di un condottiero sanguinario. Ma anche i diamanti incastonati nelle sue maioliche sono per sempre e sopravvivono per chi li sa cercare. Ma lo stupore non finisce qui. Passeggiamo lungo il viale ordinato e pulitissimo voluto dal regime di Karimov: i prati dovevano essere verde brillante anche in mezzo al deserto, i fiori sempre in ordine, le signore in tuta blu e fazzoletto rosso sempre chine a travasare nuove piantine.

Lungo una strada che porta fuori dal centro storico, addossata al cimitero dell’Afrosiyob dove riposano ebrei, russi, uzbechi, tagichi e non solo, si apre la strabiliante necropoli di Shah-i-Zinda, un nome persiano che significa il re vivente. Secoli su secoli di tombe magnifiche, dalle decorazioni sempre più ardite.
Smalti lucidi, paste di vetro, maioliche con decorazioni a rilievo. Un caleidoscopio azzurro che per i cittadini di Samarcanda è anche, parzialmente, un luogo di culto: si viene a venerare il mausoleo spoglio di qualche principessa defunta dalle proprietà taumaturgiche. Si lascia una banconota da diecimila som sotto un sassolino ai piedi della tomba di un nobile principe, insieme a una preghiera o a un desiderio da esaudire. Babi mi trascina in un cunicolo tortuoso dentro a un mausoleo che si trova in fondo al complesso.

Bisogna abbassare la testa e, porticina dopo porticina di legno, arriviamo fino a una sala rivestita di maioliche verdi. Mi siedo su una panca vicino all’ingresso e chiudo gli occhi. Un uomo intona un canto funebre con una voce che spezza il fiato e stritola le viscere. Per chi canta, che cosa canta o in che lingua non importa più. Samarcanda pulsa ancora sotto gli smalti azzurri: il re è vivo.

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